Anche il processo tributario è informato alla regola generale di distribuzione dell’onere probatorio ex art. 2697 cod.civ., con la conseguenza che – in tema di recupero di un credito di imposta – è l’ente impositore, attore in senso sostanziale, ad essere gravato dall’onere di provare i fatti costitutivi della propria pretesa, più non operando nei confronti del giudice ordinario e di quello tributario la presunzione di legittimità degli atti amministrativi e, tra questi, di quelli impositivi.
Il carattere dispositivo, e non inquisitorio né acquisitivo, del processo tributario è stato dal legislatore nel tempo rafforzato attraverso l’abrogazione dell’art. 7, co. 3^, d.lgs. 546/92, il quale sanciva che: “è sempre data alle commissioni tributarie facoltà di ordinare alle parti il deposito di documenti ritenuti necessari per la decisione della controversia”.
Per quanto non direttamente applicabile alla fattispecie qui dedotta, si osserva come questa linea evolutiva dell’ordinamento sia recentemente culminata nell’introduzione del co. 5 bis nell’art. 7 in esame, da parte della legge 130/2022.
Come osservato dalla Corte Costituzionale nella sentenza n. 109/07 (dichiarativa della infondatezza della questione di legittimità costituzionale dell’art. 7, comma 1, d.lgs. 546/92, ex artt. 3 e 24 della Costituzione) “la rilevanza pubblicistica dell’obbligazione tributaria giustifica ampiamente i penetranti poteri che la legge conferisce all’amministrazione nel corso del procedimento destinato a concludersi con il provvedimento impositivo, ma certamente non implica affatto – nè consente – che tale posizione si perpetui nella successiva fase giurisdizionale e che, in tal modo, sia contaminata l’essenza stessa del ruolo del giudice facendone una sorta di longa manus dell’amministrazione: in particolare, attribuendo al giudice poteri officiosi che, per la indeterminatezza dei presupposti del loro esercizio (o non esercizio), sono potenzialmente idonei a risolversi in una vera e propria supplenza dell’amministrazione”.
All’esito della suddetta abrogazione, sono in effetti residuati in capo al giudice tributario determinati poteri istruttori di natura acquisitiva ed informativa, ma ciò nei soli limiti del 1^ co. del medesimo art. 7 (però insuscettibile di determinare la strumentale ed indiretta reviviscenza della disposizione abrogata) e, stante il richiamo ex art. 1, co. 2^, d.lgs. 546/92, nei limiti di cui agli artt. 210 (con necessità di una richiesta di parte) e 213 (informativa presso una PA che non sia parte del giudizio) del codice di rito.
La giurisprudenza di questa Corte – appunto nel vagliare il perimetro di esercizio di questi residui poteri di acquisizione probatoria del giudice tributario, segnatamente nel prisma del primo co. dell’art. 7 cit. – ha più volte ribadito la natura dispositiva del processo tributario (improntato alla ‘parità delle armi’) e, in particolare, il principio per cui in nessun caso il potere del giudice di disporre d’ufficio l’acquisizione di mezzi di prova “può essere utilizzato per supplire a carenze delle parti nell’assolvimento del rispettivo onere probatorio, ma solo in situazioni di oggettiva incertezza, in funzione integrativa degli elementi istruttori in atti, e sempre che la parte su cui ricade l’’onus probandi’ non abbia essa stessa la possibilità di integrare la prova già fornita”.
Nel caso di specie ci si trova proprio di fronte all’esercizio, da parte della Commissione Tributaria Regionale, di un potere di acquisizione probatoria in funzione chiaramente suppletiva ed esonerativa dell’onere probatorio gravante per regola generale sull’ente impositore. Infatti la CTR in forza di propria iniziativa aveva onerato la Regione Lazio (parte del giudizio, anche se rimasta contumace) alla produzione dell’avviso di ricevimento dell’atto interruttivo della prescrizione della tassa automobilistica, non depositato dall’agente della riscossione; ed in esecuzione dell’ordinanza la Regione Lazio ebbe appunto a depositare copia del relativo avviso di ricevimento, sul quale la Commissione Tributaria Regionale ha poi basato per intero il proprio convincimento escludente la perenzione della pretesa.
E’ evidente che, a fronte della contestazione mossa dal contribuente in ragione del tempo trascorso tra l’annualità dovuta e la notificazione della cartella impugnata (a suo dire, primo atto di richiesta ed esazione), era onere dell’Amministrazione fornire la prova contraria del non decorso dei termini legali.
E’ pur vero che l’interruzione della prescrizione da parte dell’Amministrazione finanziaria rappresentava una mera difesa o un’eccezione in senso improprio – potendo essere anche rilevata dall’ufficio, ove emergente dagli atti processuali – e tuttavia è anche vero che la rilevabilità d’ufficio dell’evento interruttivo presupponeva comunque la sua emersione fattuale dalle prove ritualmente introdotte in giudizio dalle parti secondo la regola generale di ripartizione dell’onere probatorio.
Ne consegue che, stante la inutilizzabilità della documentazione così acquisita (profilo che assorbe anche la deduzione del Procuratore Generale in punto autosufficienza dei motivi di ricorso), la sentenza va sul punto cassata ed il ricorso originario– relativamente all’anno 2005 – deve trovare accoglimento.
Cassazione Civile sentenza n. 10166 del 16/04/2024